Jonathan Harker, sorseggiava il suo indecoroso Espresso ad uno dei tavoli dell’Hotel Palestine. Erano da poco passate le sei del mattino.
Il bar aveva appena aperto e a fargli compagnia c’erano solo un cane malandato impegnato a scaldare le sue vecchie ossa ai primi raggi del sole ed alcune pagine del Times che scivolavano silenziose sulla piazza dell’albergo, mosse da un vento già troppo caldo.
–Chissà da dove arrivava e dove avrebbe portato le sue cronache di sangue e morte.-
All’interno del locale il cameriere era impegnato a sistemare le poche brioches appena sfornate nel banco scarno vicino al registratore di cassa. Jonathan non era affamato, non lo era mai; lui si nutriva e basta.
Adesso non aveva pensieri, era calmo, rilassato. Adorava il sole, non si perdeva mai un’alba. In passato n’aveva perse molte, troppe e non voleva più farne a meno; ne sentiva la necessità, un bisogno primordiale che era sempre stato lì, in agguato, per ricordargli la sua natura.
Il sole colorava d’arancio la città ancora addormentata. I palazzi in rovina disegnavano lunghe ombre silenziose. Per la strada si vedevano solo i mezzi blindati della forza d’occupazione e poche donne con il velo che andavano al mercato, ignare protagoniste dell’ennesima notizia di cronaca estera sul tavolo di un appartamento di Manhattan; inconsapevoli fermo-immagine alle spalle di un giornalista durante il notiziario delle venti sulla CNN.
Era tornato a Baghdad il 5 maggio del 2003, poco dopo l’inizio della guerra. Entrare in Iraq era stato più facile del previsto; si era unito ad un gruppo di giornalisti come traduttore per aggirare i controlli e una volta passata la frontiera li aveva abbandonati.
Si spostava di notte, veloce e silenzioso; di villaggio in villaggio, di città in città. Era l’istinto a guidarlo.
Non aveva paura dei bombardamenti americani né tanto meno della resistenza irachena. In effetti, erano poche le cose che riuscivano a spaventarlo, l’unica che temeva veramente era se stesso.
Aveva gia abitato in questi luoghi; si era gia imbattuto nelle stesse tempeste di sabbia, aveva gia cavalcato lungo le medesime piste che arrivavano fino alle porte della città. Le acque del Tigri lo avevano accolto per lussuriose nuotate nel cuore della notte, in compagnia d’inconsapevoli fanciulle.
A quel tempo lui era un Re, un’entità fondamentale, era considerato un Essere superiore… ma quel mondo non esisteva più, era scomparso; inghiottito dal tempo e dimenticato dagli uomini.
Un tempo in cui era temuto e rispettato.
Solo i più audaci avevano il coraggio di pronunciare il suo nome e anche loro ne pagavano lo scotto; i suoi adepti lo consideravano una guida; i suoi nemici non potevano nulla contro di lui.
-Lui era invulnerabile;
Lui era imprendibile;
Lui era un Etimmé.-
Nel 607 a.C., insieme alle armate di Nabucodonosor II raggiunse Gerusalemme.
Jonathan non tornò mai più in Mesopotamia. Si fermo in Israele e da quel giorno lo ribattezzarono Aluka.
Sono centinaia i nomi che gli hanno dato nel tempo. Tanti quasi quanti i luoghi in cui ha dimorato.
Una volta era di gran lunga più facile procurarsi il cibo. Non esistevano investigazioni scientifiche e le notizie non correvano fulminee nell’etere da un capo all’altro del mondo in una frazione di secondo.
La vita era più semplice, a “misura d’uomo” come diremmo oggi.
La consacrazione del mito avvenne nel 1890, in un piccolo Cafè di Londra quando raccontò la sua storia ad un giovane irlandese di nome Abraham Stoker.
Lo scrittore vi trasse ispirazione per scrivere il romanzo che, pubblicato nel 1897, lo rese famoso al grande pubblico.
Fu quasi per caso che quel libro capitò tra le mani Jonathan in una piccola libreria di Brooklyn nella quale si stava riparando da un violento temporale, ben sedici anni dopo la sua pubblicazione.
Fu leggendo le prime pagine di quel romanzo che decise di prendere il nome che porta ancora oggi: Jonathan Harker. Era il 20 aprile del 1912.
Per celebrare quel evento la notte stessa fece un succulento banchetto in compagnia delle poche giovani sopravvissute del Titanic, arrivate in porto due giorni prima e ancora in attesa del loro destino sull’inospitale Ponte Superiore del Carpathia.
–è ora di riposare!-
Finito il caffé; con un leggero cenno del braccio, chiamò il cameriere per chiedere il conto. Lasciata una mancia di gran lunga superiore al servizio offerto, raccolse il pacchetto di sigarette dal tavolo e si incamminò verso casa.